MINIERA DELLA BAGNADA

Il lungo serpentone umano arranca per le rampe della corta ma ripida salita che, partendo dal piccolo museo, sale fino all’imbocco della miniera. Pochissimi sono già entrati in un ambiente simile, ma, dopo tanti anni di film e fumetti western, ognuno sa già cosa aspettarsi. E così, quando ci si trova davanti al tunnel d’ingresso fornito di rotaie e relativo trenino, travi e pilastri in legno che reggono il soffitto di un basso corridoio rettangolare, molti hanno una sensazione di dejà-vù. Appena entrati, messo il piede nella prima pozzanghera che incontriamo, capiamo subito perché la miniera si chiama così: Bagnada. Altra cosa che capiamo subito è che il suggerimento di coprirci contro il freddo è stato quanto mai opportuno: all’interno ci sono 6-7 °C che, seppure in una giornata di inizio giugno non caldissima, sembrano molto pochi. Così il primo drappello di un contingente di più di cinquanta persone, bardato di tutto punto e con tanto di casco in testa, entra nella miniera. Dopo il primo corridoio la galleria si alza un poco, permettendo anche ai più alti di camminare tranquillamente eretti. Le spiegazioni di Pierangelo, la nostra guida, sono competenti e puntuali, permettendo una visita interessante. Anche l’allestimento non è male: la miniera è illuminata bene, sia con luci per guidare il visitatore nel percorso, sia con luci d’accento per creare una giusta atmosfera; scale comode permettono di cambiare livello di galleria e raggiungere spazi didattici dove sono riproposti macchinari, ambienti e lavorazioni tipici della miniera. Il tutto è aiutato da inaspettate proiezioni di filmati con ricostruzioni dei momenti topici della vita dei minatori. Percorriamo i cunicoli in lungo ed in largo, raccogliamo gli ultimi pezzi di talco dell’ormai esausta, e perciò abbandonata, miniera e dopo circa un’ora e mezza usciamo nuovamente all’aria aperta. Visitiamo il piccolo ma interessante museo e, dopo esserci ricongiunti con l’altra metà del gruppo, facciamo rotta per il vicino rifugio dell’Alpe Ponte. Il percorse è breve (una mezz’oretta) ma sufficiente per farce venir fame. Alcuni mangiano al sacco, altri (con soddisfazione) all’interno. Mentre quest’ultimi si attardano con i piaceri della tavola, altri esplorano l’intorno. Ci facciamo largo tra le magre mucche e ci portiamo sull’orlo dell’impressionante “ruinun”, un canalone franoso-erosivo che pian piano si sta mangiando l’alpeggio ed i boschi circostanti, sostituendoli con pinnacoli di sabbia e detriti e spondoni ghiaiosi. Ci chiediamo quanto resisteranno ancora le baite, prima di essere inghiottite da baratro e, per sicurezza, ci allontaniamo, tornando al rifugio. Qui, all’ora della merenda, ci dividiamo ancora una volta in due gruppi: alcuni, per motivi vari, preferiscono scendere dalla strada dell’andata, altri, insoddisfatti per l’esiguo dislivello finora fatto, preferiscono scendere a piedi fino a Lanzada. Una volta qui, mangiamo i famosi biscotti Lanzadini  e Sebastopoli(?) della pasticceria Gianoli, aspettiamo l’autobus e ce ne torniamo a casa.

@lex

 

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